Partiamo dal presupposto che il lavoro domestico è stato previsto, stabilito e regolamentato già nel 1958, con la Legge del 2 n. 339. Essa sancisce che colui che presta la sua opera, in modo continuativo, unicamente per le necessità e il funzionamento della vita familiare di colui che è il datore di lavoro, è definito lavoratore domestico. Questo sia che lui abbia una qualifica specifica, anche con un’alta competenza di tipo professionale (per esempio puericultrice, infermiere generico, chef, autista personale, giardiniere, custode, ecc.), sia con mansioni di diverso tipo che possiamo definire generiche.
Nella fattispecie, come riportato anche sul sito INPS, il lavoro domestico può svolgersi con modalità operative e temporali piuttosto diverse fra loro.
Infatti vi può essere:
– lavoro domestico a servizio intero (lavoratore domestico convivente o badante): il lavoratore risiede con il datore, usufruendo della retribuzione ed anche del vitto e dell’alloggio;
– lavoro domestico a mezzo servizio: quando il lavoratore presta, nella medesima famiglia, servizio per almeno 4 ore al giorno oppure per 24 ore settimanali (nel caso in cui il servizio non è uniforme in tutti i giorni della settimana);
– lavoro domestico ad ore: l’opera del lavoratore è prestata in famiglia solo per alcuni giorni alla settimana (con un orario che non supera le 24 ore settimanali).
Detto ciò e delineate queste linee generali, si fa presente che nel caso in cui il lavoratore domestico decide di assentarsi dal proprio lavoro, deve tempestivamente comunicare questa evenienza al datore di lavoro e giustificare l’assenza stessa.
Ovviamente per le assenze che derivano da malattia e infortuni o malattie professionali, si applicano rispettivamente gli artt. 26 e 27 dello specifico contratto collettivo domestico.
Se le assenze non vengono giustificate entro il quinto giorno, ove non si siano verificate cause di forza maggiore, esse sono da considerarsi possibile motivo per una giusta causa di licenziamento.