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Contratti a chiamata: la Cassazione si pronuncia sulla alternatività dei presupposti legittimanti

Il contratto di lavoro intermittente o a chiamata è quel particolare contratto di natura subordinata, anche a tempo determinato, mediante il quale un lavoratore, si pone a disposizione di un datore di lavoro privato, che ne può utilizzare la prestazione lavorativa in modo discontinuo per un periodo non superiore a 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco del triennio, fatta eccezione per i settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo.

Essendo a tutti gli effetti un contratto di natura subordinata il lavoratore a chiamata matura anche ferie e permessi, proporzionati alle giornate effettive di lavoro e da utilizzare nei giorni di svolgimento della prestazione.

Per lo stesso principio il lavoratore intermittente è computato nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun semestre (art. 18, c. 1, D.Lgs. 81/2015).

Vi sono due tipi di contratto di lavoro a chiamata:

a) quello con obbligo di disponibilità;
b) quello senza obbligo di disponibilità.

Nel primo caso il lavoratore è vincolato alla chiamata datoriale, essendosi impegnato, in sede di assunzione, a rispondere alla stessa ed a svolgere la prestazione richiestagli senza possibilità di rifiuto, pena l’espressa sanzionabilità disciplinare;

Nel secondo caso, invece, il lavoratore resta libero di poter valutare, a seconda dei casi, se svolgere o meno la prestazione richiesta, mantenendo una piena facoltà di rifiuto, senza alcuna conseguenza disciplinare, salvo, come si vedrà, la mancata maturazione del relativo compenso.

Le ipotesi di utilizzabilità del contratto a chiamata sono disciplinate dalla norma la quale prevede che si possa ricorrere a questo tipo contrattuale in ipotesi specifiche e ben delimitate dalla normativa.

In particolare, infatti, nella lettera a) del dettato normativo il legislatore ha rimesso alla contrattazione collettiva l’individuazione delle esigenze in presenza delle quali è possibile la stipula di contratti a chiamata.

Tali previsioni, a norma dell’art. 13 del D.lgs 81/2015, possono essere indicate non solo nei contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, quanto nei contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali (RSA) ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria (RSU).

In mancanza di contrattazione collettiva, la lettera b) della norma citata demanda questo potere ai decreti del Ministero del lavoro, ed in particolare, come sancito dal citato Ministero nell’Interpello n. 10 del 21 marzo 2016, al DM 23 ottobre 2004, ai sensi del quale è ammessa la stipulazione di contratti di lavoro intermittente con riferimento alle tipologie di attività indicate nella tabella allegata al RD 2657/23.

Inoltre alla lettera c) è stabilito che il lavoratore debba essere un soggetto con meno di 24 anni di età, purché le prestazioni lavorative siano svolte entro il 25° anno, o con più di 55 anni.

La giurisprudenza si è interrogata sulla necessaria cumulabilità delle disposizioni ovvero sulla loro alternatività.

Il punto è stato chiarito dalla Cassazione Sezione Lavoro, che con la Sentenza 24 luglio 2023 n. 22086 ha evidenziato come i presupposti che legittimano la stipula del contratto di lavoro intermittente ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. 81/2015 – età del lavoratore e discontinuità dell’attività – non devono necessariamente concorrere, in quanto il legislatore ha previsto due distinte ipotesi di lavoro intermittente, l’una giustificata dal requisito, oggettivo, dell’attività discontinua e l’altra da quello, soggettivo, dell’età del lavoratore. In tema di lavoro intermittente, dunque, il requisito oggettivo è alternativo a quello soggettivo (età del lavoratore) tenuto conto del tenore letterale delle norme.

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