Stante la disciplina contenuta nell’art. 2103 c.c., il c.d. ius variandi, ossia il potere del datore di lavoro di modificare le mansioni del prestatore durante lo svolgimento del rapporto di lavoro rispetto a quanto concordato in sede di assunzione, è collegato ad un duplice limite:
- la nozione di categoria legale (dirigente, quadro, impiegato e operaio);
- la nozione di inquadramento (I°, II°, III° livello ecc.) di fonte contrattuale collettiva.
Ne deriva che, a norma di legge, ferma la categoria legale, il dipendente può essere adibito a qualsiasi delle qualifiche/mansioni previste dalla contrattazione collettiva all’interno del medesimo livello di inquadramento.
Per quanto attiene ai Dirigenti, non essendo prevista nei contratti collettivi una differenziazione di inquadramento, il limite per la modifica delle mansioni resta quello della categoria. Quindi il datore di lavoro può adibire il Dirigente a qualunque mansione, purché di contenuto dirigenziale.
Da ciò discende che, per verificare la configurabilità o meno di un illegittimo demansionamento di un Dirigente, è necessario valutare non tanto l’equivalenza dei compiti assegnati rispetto a quelli espletati in precedenza, ma l’effettività del carattere dirigenziale dell’attività svolta.
Accertato il demansionamento, spetta comunque al Dirigente allegare l’esistenza di un pregiudizio e le sue caratteristiche, dando prova del danno subito e del nesso di causalità (ossia del collegamento) che lega il demansionamento al danno. Tale prova, in caso di danno esistenziale, può essere fornita anche ricorrendo a presunzioni da parte del Dirigente.
(Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 1° luglio 2019, n. 1068)