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Obbligo di fedeltà e patto di non concorrenza

Il patto di non concorrenza regolato dall’art. 2125 c.c. sancisce che il lavoratore può essere limitato nello svolgimento della sua attività per un determinato periodo dopo la cessazione del rapporto di lavoro solo se risulta da atto scritto, è riconosciuto un corrispettivo al lavoratoreper questa limitazione e se il vincolo è contenuto entro determinati limiti di oggetto, tempo e luogo.

 

Tale patto può essere stipulato prima, durante o dopo la firma del contratto di lavoro.

 

Diverso invece l’obbligo di fedeltà, disciplinato dall’art. 2105 c.c., che prevede durante lo svolgimento del rapporto di lavoro che il lavoratore non tratti affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’attività del datore di lavoro, né tantomeno divulghi informazioni, in modo pregiudizievole, relative all’azienda e ai metodi di produzione. Tale obbligo è implicito nel contratto stesso stipulato tra le parti e non necessita di accordo.

 

Ciò premesso ai fini della valutazione della validità del patto di non concorrenza occorre osservare i seguenti criteri, elaborati dalla giurisprudenza:

  1. relativamente alle mansioni, il patto non necessariamente deve limitare quelle svolte dal lavoratore nel corso del rapporto, potendo estendersi anche a prestazioni in attività economiche che siano in competizione con quella svolta dal datore, tenendo conto anche di quei mercati dove convergono domanda e offerta di beni identici o comunque in grado di soddisfare in modo equivalente le esigenze del consumatore quindi sottraendo potenziali quote di mercato al datore con cui si è stipulato il patto;
  2. le limitazioni contenute nel patto di non concorrenza non possono essere così ampie da inibire totalmente la possibilità al lavoratore di svolgere concretamente la sua professionalità, compromettendone la relativa capacità reddituale;
  3. il corrispettivo dovuto per il patto di non concorrenza deve essere congruo, non meramente simbolico, e deve essere commisurato al sacrificio richiesto al lavoratore considerando anche la riduzione delle sue capacità di guadagno, a prescindere dall’utilità realmente ottenibile dal datore di lavoro con il comportamento richiesto al lavoratore e dall’ ipotetico valore di mercato.

 

(Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, 26 maggio 2020, n. 9790)

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